La ricerca Sigim sulle Pari Opportunità svela una realtà insoddisfacente
GIORNALISTE NELLE MARCHE: CRONACA DI UN CAMBIAMENTO
INDAGINE SIGIM-CPO FNSI
4 marzo 2009 Ancona
Lavoro e denaro, ma anche figli e passioni private. Ruoli di responsabilità e prestigio, con un peso sempre più forte sulla scelta dei temi e delle priorità, secondo logiche che vedano profonda collaborazione tra individui, contenuti, identità, al di là di schemi ed etichette formali. Le donne sono la rivoluzione inevitabile del nuovo secolo, la forza sociale e culturale con cui il mondo dovrà gestire un’epoca di grande e tumultuosa evoluzione. La realtà cambia rapidamente sotto i nostri occhi e allo stesso tempo vediamo il passato manifestarsi ogni giorno davanti a noi nelle più tradizionali e reiterate combinazioni. Le giornaliste vivono questo passaggio epocale nella scomoda posizione di osservatrici e protagoniste, di soggetti attivi nel raccontare il cambiamento e di strumenti passivi nel subire meccanismi tuttora schiaccianti. I segnali contemporanei appaiono dunque contrastanti e controversi, le spinte contrapposte, gli esiti altalenanti. Ma in questa faticosa progressione alcune linee si evidenziano con forza: le giornaliste sono un terzo della forza lavoro e si apprestano a diventare la metà dei nuovi ingressi nella professione. Le Marche in questo confermano la tendenza nazionale, e se qualcuno si aspettava un atteggiamento dimesso e/o depresso nell’affrontare il peggior momento socioeconomico dell’Italia postbellica, ebbene l’indagine Sigim sulle giornaliste marchigiane sgombra il campo da ogni dubbio: niente piagnistei e rivendicazioni vuotamente ideologiche, grande attenzione al quotidiano, sensibilità concentrate sulle dinamiche del lavoro, preoccupazione per le condizioni di mercato e voglia di protagonismo nei processi decisionali. Insomma le rose, ma soprattutto il pane: si vuole valorizzare – e non più nascondere - il tradizionale senso femminile di accoglienza e inclusione, di tenerezza e compartecipazione emotiva nel vivere la realtà; ma si sente anche e soprattutto la necessità di vedersi materialmente riconosciuti diritti, supporti, valore economico e forza contrattuale. Una sana concretezza che trasformerà il giornalismo italiano in un ambiente più trasversale, critico, completo. Non perché le donne possano lavorare meglio degli uomini, ma diversamente. Non perché gli uomini abbiano voluto negare una dimensione della realtà, ma perché ora hanno la possibilità di svilupparla e interpretarla in libertà. Una regione avanzata come le Marche ha necessità di riflettere e investire su questo processo, contando sulla competenza e disponibilità dei giornalisti, sulla capacità di coordinazione e stimolo del sindacato. Questa indagine è un primo contributo, è la foto delle giornaliste marchigiane nell’anno 2009, un anno difficile che ci costringe a pensare con solida e felice immaginazione al nostro futuro.
Introduzione
L’indagine 2009 sul lavoro delle donne nel mondo dell’informazione marchigiano è stata promossa dal Sigim (Sindacato giornalisti marchigiani) attraverso un’analisi quantitativa degli organici presenti in regione e un questionario sulla vita personale, familiare e professionale col preciso obiettivo di stabilire le condizioni di lavoro del giornalismo femminile, segnalandone luci, ombre e possibili interventi migliorativi. Dai risultati emerge come le donne siano stabilmente inserite nella professione, ma quanto fatichino ancora a raggiungere i vertici della carriera e a proporre le proprie logiche nell’ambiente lavorativo. Se sono infatti caduti molti pregiudizi sul lavoro femminile in un ambito tradizionalmente dominato dagli uomini, resistono un po’ ovunque stereotipi e rigidità sia nell’organizzazione del lavoro che nella rappresentazione della realtà offerta da media governati prevalentemente da uomini. Molte donne pagano l’impegno professionale nella vita privata, altre sono costrette a rinunciare ad avanzamenti di carriera per le persistenti difficoltà di conciliare i tempi di vita con quelli della professione. Consistente, in questa fase critica dell’economia, il numero di colleghe che aspirano a risultati minimi: un’assunzione di qualsiasi genere, o almeno una stabilizzazione dei rapporti precari che stanno vivendo. Pur ritenendosi cioè all’altezza di ruoli significativi, le giornaliste comprimono le proprie esigenze in attesa di condizioni generali più favorevoli.
Con queste premesse va da sé che il grado di soddisfazione femminile dentro e fuori le redazioni non possa essere alto, nemmeno tra le colleghe che sono garantite da un contratto regolare. Più insoddisfazione ancora si riscontra tra le free-lance, che in gran parte denunciano compensi inadeguati e scadenti prospettive professionali.
Prendere coscienza del propri diritti sindacali e professionali è la prima e indispensabile condizione per accelerare il cambiamento in atto, per abbattere le resistenze che ancora ci sono e cancellare atteggiamenti ormai superati.
Sezione preliminare. Inquadramento professionale e anagrafico
All’iniziativa della Cpo-Sigim ha aderito l’80% delle iscritte al sindacato marchigiano dei giornalisti, e, più precisamente, 56 delle 67 partecipanti hanno risposto validamente alle domande su un totale di 79 iscritte (74 iscritte al 31/12/2008 + 5 neoiscritte nel primo bimestre 2009). Un campione (56 colleghe) decisamente significativo: quasi il 10% delle iscritte all’Ordine (645), equamente suddivise – rispetto alle iscritte Sigim – tra pubbliciste (19, 15 autonome e 4 dipendenti) e professioniste (37, 26 dipendenti e 11 autonome). La maggioranza delle risposte (70% del campione) arriva da colleghe di età compresa tra i 30 e i 50 anni (38% tra i 40 e i 50 anni), e che quindi ha già maturato una certa esperienza nella professione: 5 sono tra i 50 e i 60 anni, solo una li supera, altre 6 non dichiarano la propria età. Appena 5 le colleghe sotto i trent’anni, a conferma che l’attenzione alla condizione personale e professionale è più forte tra chi è iscritta all’Ordine da almeno quindici-vent’anni. Metà delle intervistate dichiara infatti di essersi avvicinata alla professione nel decennio tra l’85 e il ’95, anche se è significativa la percentuale (22%) delle colleghe che hanno iniziato a lavorare dopo l’anno 2000. La lunga gavetta non sembra tuttavia una garanzia per raggiungere la sospirata stabilità lavorativa. Solo il 47% ha in tasca un’assunzione in una redazione o in un ufficio stampa (26 le redattrici, tra cui 13 assunte ex art.1 o a tempo indeterminato full-time, 1 redattrice a tempo determinato, 1 a part time, 1 praticante, 2 part time ex art.12, 1 collaboratrice fissa ex art. 2, 1 corrispondente). Tra queste, non solo permangono situazioni a termine (12%) e doppi lavori (10%), ma sono pochissimi anche i posti di vertice: solo una collega ha la qualifica di caporedattore, un’altra svolge la funzione di capo ufficio-stampa senza tuttavia averne l’inquadramento contrattuale. Altre due sono caposervizio e una ricopre il ruolo di vice-caposervizio. Un dato che non deve stupire. Il giornalismo è da sempre luogo di rilevanza sociale e quindi d’appannaggio maschile: solo da qualche anno le donne sono diventate molto presenti, specie nel circuito radiotelevisivo, ma continuano a non avere ruoli di potere (specie nei media più tradizionali come i quotidiani).
Se è trascurabile la quota di disoccupazione e di inoccupazione temporanea riscontrata nella categoria (6%), risulta invece consistente la fetta di lavoratrici “senza rete” (autonome o free-lance che dir si voglia). Quest’ultima copre infatti il 28% del campione e sembra coincidere con la quota di coloro che dichiarano di dividersi tra più aziende editoriali (agenzie di stampa, quotidiani, periodici, web, radio e tv, uffici di comunicazione) facendo di tutto un po’ per mettere insieme lo stipendio, pur aspirando seriamente ad una contrattualizzazione.
Almeno la precarietà ha in qualche modo ha facilitato l’esperienza della maternità? Pare proprio di no: appena 25 delle 56 intervistate sono mamme, pur potendo contare sull’appoggio di un marito (23) o di un convivente (11) o di un ex (2) o di un fidanzato (4) per allevare i figli. Insomma, ancora pare “impossibile essere madri e giornaliste” in serenità. E se la maternità è certamente una scelta ardita per chi ancora non ha un contratto stabile, anche chi gode di un rapporto di lavoro a termine soffre: le scelte di vita vengono rimandate, le decisioni sospese, i tempi si allungano in modo incontrollabile. A volte questo logoramento si solidifica in una condizione subìta, che diventa definitivo abbandono di un progetto di maternità.
Sezione uno. Il lavoro e la carriera
Emancipate, libere, ma anche molto disincantate. Le giornaliste marchigiane per il 72% amano il proprio lavoro (ma solo nel 15% dei casi ne sono decisamente soddisfatte), sono pronte a mettersi in gioco in un ruolo direttivo nel 40% dei casi, cambierebbero anche città o nazione per fare il “salto di qualità” (la metà si dichiara disponibile, quasi un terzo resta sul ‘non so’, solo 2 oppongono un no secco all’ipotesi trasloco). Insomma, si mostrano pronte (quasi) a tutto, ma – più realisticamente – non si aspettano a breve un avanzamento di carriera in un ambiente di lavoro ancora troppo penalizzante e carico di pregiudizi nei confronti delle donne: 17 su 50 escludono una propria promozione di qui ai prossimi tre anni, 25 non sono in grado di valutarlo, ma alla fine il dato d’incertezza sembra accomunare il 67% del campione preso in esame. Alle intervistate è stato comunque chiesto di individuare i fattori vincenti per migliorare la propria condizione contrattuale e lavorativa. Secondo le interpellate, gli ingredienti per avanzare sono, in ordine di priorità, la preparazione individuale (48%), il poter contare sull’appoggio di personaggi influenti (25%), la capacità di gestire al meglio i rapporti interni con capi e colleghi tramite una paziente opera di diplomazia (25%). Tuttavia non manca chi continua a vedere nella grinta, nella fortuna o nelle raccomandazioni le armi migliori per fare carriera.
L’investimento su sé stesse, espressione di un atteggiamento positivo verso l’auto-promozione professionale in assenza di una base formativa comune, perde invece valore quando si parla di ruoli direttivi. In questo caso, per entrare nella stanza dei bottoni c’è bisogno di un aiuto dall’esterno determinato soprattutto da buoni appoggi politici (36%); seguono il sostegno di direttori o altri giornalisti affermati (28%) e la conoscenza di privati influenti (15%). “Tutto fa brodo. Bisogna solo vederne il prezzo” commenta una collega. Non sono esclusi nemmeno i favori sessuali. Su questo punto il campione si spacca. Il 40% ritiene sia un fenomeno raro, mentre sono considerati un’arma “impropria” usata con molta disinvoltura soprattutto dalle donne (30%) o che accomuna uomini e donne in ugual misura (17,5%).
Situazioni che mettono a dura prova l’attaccamento ad un professione così parca di soddisfazioni per l’universo femminile, tanto è vero che molte (58%) ammettono di essere tentate da scelte di vita e lavoro migliori e alternative: a malincuore, ma per uno stipendio migliore e un ritmo di vita più umano. Questo manca oggi al giornalismo per essere il mestiere ideale. E c’è chi già ha trovato una soluzione ibrida: “Sono una giornalista ma sto facendo altri lavori – scrive una collega –. Perché con quello che guadagno col giornalismo rischio di fare la fame, nonostante sia un settore in cui credo”.
Le donne stanno quindi attraversando una fase di disillusione rispetto alla visione un po’ romantica ed eccitante della professione che regnava tra gli anni ’80 e ’90: il mito dell’anchorwoman o della grande inviata lascia spazio alla realtà di un mestiere duro, che non offre opportunità a tutti, e anzi seleziona sempre con maggior crudezza le persone (non sempre salvaguardando i valori della competenza e della correttezza). Quasi un sentimento di odio e amore che spinge le giornaliste a vivere con passione ma a guardare con estremo realismo la propria condizione: la voglia di lavorare bene è forte, la consapevolezza dello status quo inibisce gli slanci. Nell’insieme, accanto alla speranza, cova un certo risentimento.
Sezione due. Fasce retributive
Le giornaliste si sono emancipate nel lavoro ma in genere guadagnano meno degli uomini. Hanno ruoli di minore responsabilità, fanno meno straordinari e notturni, di solito non seguono lo sport (perdendo così gli extra del serale e del festivo). Soprattutto, sono ancora impacciate nell’affrontare l’argomento denaro, eppure hanno la netta sensazione di meritare di più. Nonostante la maggioranza delle nostre colleghe iscritte al sindacato sia garantita da un contratto regolare (60%) e in certi casi abbia una posizione consolidata, solo il 10% è soddisfatta dello stipendio ritenendo che la propria professionalità sia adeguatamente riconosciuta; il 26% è soddisfatta solo in parte, il 61% non lo è affatto. Questa percezione del valore del lavoro, la quantificazione economica del proprio contributo, è un importante passaggio di autovalutazione. Le donne non hanno mai avuto una particolare forza nel richiedere e ribadire le loro esigenze economiche: l’antica nobiltà del non trattare esplicitamente sul vil denaro sta lasciando sempre più spazio a una sana chiarezza sui propri diritti, a partire dalla busta paga o del compenso pattuito di volta in volta.
Il campione dimostra che appena 3 giornaliste possono contare su uno stipendio superiore ai 3mila euro, mentre solo 5 guadagnano più di 2mila euro. Tutte le altre dichiarano di rientrare nelle fasce retributive più basse, addirittura il 36% ammette di stare sotto la soglia dei 1000 euro mensili, e non si tratta necessariamente delle più giovani. Anche questo è un cambiamento evidente: nell’immaginario della categoria la giornalista non è più una professionista lautamente compensata e protagonista di mirabolanti avventure ma una lavoratrice seria che deve fare i conti – materiali e simbolici – con la realtà. Questo bagno di concretezza spingerà sicuramente le professioniste di domani a organizzare (oggi) una credibile prospettiva di vita e carriera, evitando vaghezze e perdite di tempo. Perché, ad esempio, quasi tutte le intervistate ritengono di essere pagate poco, ma solo il 15% conosce i livelli di reddito dei giornalisti uomini ed è quindi in grado di misurare le opportune differenze. Si tratta evidentemente di un argomento sul quale non c’è ancora dialogo tra colleghi, anche se tutti dovremo imparare presto ad occuparcene se, come pare, ci sarà un sempre più ampio ricorso alla contrattazione di secondo e terzo livello, con accordi per testata o addirittura ad personam.
Ma già oggi, per una giornalista, è indispensabile organizzare bene la propria amministrazione, e poter magari contare sul reddito stabile di un marito/compagno se insieme si ha intenzione di organizzare una famiglia. E’ attento al tema il 38% delle nostre intervistate, ammettendo che l’uomo di casa guadagna di più (nel 10% dei casi lo stipendio è pressoché uguale, nel 7,5% più basso. Il 32,5% non risponde perché single).
Soldi a parte, il 52,5% ritiene che il partner faccia un lavoro più prestigioso. Sintomo che l’equazione “guadagna di più, vale di più” si è fatta strada, e che in Italia, anche a parità di stipendio, i ruoli socialmente rilevanti premiano più spesso i mariti delle mogli (benché professioniste). E’ chiaro che questa conformazione familiare, questo sbilanciamento dei ruoli e delle funzioni, ripropone uno schema classico e poco evolutivo, riverberandosi problematicamente nel rapporto di coppia e nell’educazione dei figli.
Sezione tre. La famiglia
Più realizzate sul piano personale, ma anche più stressate. Le giornaliste marchigiane si dichiarano libere di fare le scelte professionali che desiderano, e in questo si sentono anche supportate dal partner (53,5%). Ma alla fine pagano caro il prezzo di una vita al limite del tempo, in bilico tra lavoro, casa, figli, frigo da riempire e pochissimi riconoscimenti. Non è un caso che solo il 25% si senta davvero aiutata a portare avanti il carico familiare e affermi che il peso sia in gran parte sulle proprie spalle (36%). Il 15% rivela che “lui” sta provando a fare di più, il 10% ritiene che lo riesca a fare solo nella cura dei figli. Ancora poche (16%) coloro che possono contare su iniziative messe in campo dal proprio datore di lavoro, tipo permessi retribuiti e asili aziendali, soluzioni che restano un miraggio per il 45% delle giornaliste.
Eppure, resta forte il desiderio di un figlio. Lo esprime il 40% del campione preso in esame, malgrado sia molto concreto il rischio che la maternità possa trasformarsi in un ostacolo definitivo per la carriera (“è un ostacolo e un pregiudizio. Non per chi li ha, ma per chi ti deve assumere” scrive amaramente una giornalista) e la consapevolezza di quanto sia complicato conciliare famiglia e lavoro (ne è convinto il 49%). Il desiderio di diventare mamma resta tuttavia confinato nella sfera personale, perché, anziché un plus, tutto ciò che ruota intorno alla famiglia è considerato un tabù in un ambiente lavorativo lontano dal valorizzare le differenze: la figura di riferimento che persiste nelle redazioni sembra essere quella del giornalista “cinico e fanatico del lavoro” libero da legami familiari. Uno stereotipo duro a morire, cui ci si sente costretti ad aderire in toto o che si cerca di combattere mettendo anche a rischio la propria carriera. La terza via, quella della conciliazione, è ancora tutta da tracciare.
Sezione quattro. Le pari opportunità in redazione
Essere donna non ha creato difficoltà di accesso al lavoro per la maggioranza delle intervistate. Il 46% considera il genere un elemento neutro nella vita professionale, il 15% lo vede invece come un fattore positivo. Pregiudizi espliciti verso le donne? Per il 57,5% non esistono in termini palesi e conclamati, tutt’al più si avvertono nei momenti importanti, quando ci sono da prendere le decisioni forti e da affidare i servizi che contano davvero (20%). Ma le colleghe più affermate, quelle che con fatica e dopo anni di impegno sono riuscite a ricavarsi un posto ben definito nelle dinamiche, affermano di riuscire a proporsi e imporsi con successo.
La peggiore disparità si coglie però nella vita di tutti i giorni, nei piccoli dettagli dell’attività professionale, nel constatare che, spesso, il compito più interessante è finito in mano al collega (maschio). Svantaggi di fronte agli uomini? I pareri sono divisi, ma alcune opinioni sono ricorrenti: i capi-uomini puntano soprattutto sui maschi (42%) e pochissimo sulle donne (6%) nella distribuzione di incarichi e riconoscimenti. La percentuale di fiducia verso l’universo femminile non migliora, se non di un’inezia (50%), nei pochi casi in cui a comandare è una donna. La solidarietà femminile, insomma, se esiste, non è qui. “Ma è difficile rispondere – commenta una collega – perché non ho mai avuto un capo donna”. Per il 32% la mancata scelta di una donna è motivata col fatto che una giornalista “non sa gestire le situazioni”, “è troppo competitiva, dunque inadatta a lavorare in team”, e soprattutto mostra di “avere minor affidabilità dal momento in cui diventa mamma” (57,5%). In redazione, insomma, occorre giocare a nascondino con la propria dimensione umana, parlare poco dei problemi familiari e personali, farlo solo con chi si sa essere già sensibile a queste tematiche perché le vive lui per primo. Sennò, meglio non chiedere elasticità e aiuto per gestire meglio il proprio carico extralavorativo: è un segno di disaffezione al lavoro che può segnare una carriera, per sempre. E se questo fino a oggi valeva per le donne, è ora venuto il tempo dei primi papà che avanzano richieste di maggiore libertà e flessibilità a causa degli impegni privati. Le reazioni all’interno delle redazioni variano molto, e in qualche raro caso sembra esserci vera comprensione e apprezzamento per questo tipo di scelta, ma più spesso i padri giornalisti, se si prendono fino in fondo il proprio carico di impegno domestico, devono subire le stesse pressioni e discriminazioni vissute dalla donne fin qui. Creare un terreno comune tra colleghi su questi temi (i figli, i genitori anziani, le proprie attitudini e passioni personali) significherà modificare significativamente il modello ideale e comportamentale del giornalista italiano, uomo o donna che sia.
Nonostante le disparità, i rapporti con i colleghi e le colleghe sembrano comunque abbastanza positivi. La maggioranza delle intervistate (60%) si trova a suo agio a lavorare sia con uomini che con donne, il 10% preferisce gli uomini e solo in tre rispondono ‘meglio le donne’. Anche perché c’è più competitività con le colleghe, come rivela il 35% del campione, e la collaborazione s’instaura solo quando ci si sente più deboli (25%).
Pochi passi avanti, invece, sul fronte dell’informazione equamente bilanciata tra visione maschile e femminile. Se alcune colleghe riferiscono di un confronto piuttosto aperto in redazione per trovare una sintesi, nella maggior parte dei casi l’indirizzo maschile dei capi risulta automaticamente sposato dai sottoposti (uomini e donne), e in molti casi si denuncia una totale mancanza di dibattito sull’argomento: troppo difficile affrontarlo direttamente, troppe premesse e infinite variabili da affrontare in un mondo che – anche fuori dalla redazioni – sembra poco disponibile a modificare concretamente gli equilibri in campo. Ma il seme c’è, e se innaffiato a dovere da puntuali iniziative degli addetti ai lavori, porterà frutto. Su questo la responsabilità del sindacato ha (e avrà) un ruolo preciso.
Conclusioni
Di cosa hanno bisogno oggi le donne giornaliste? Innanzitutto di essere riconosciute nel proprio ruolo professionale, puntando – almeno idealmente - su una promozione o una stabilizzazione del lavoro precario (43%), sul miglioramento del proprio stipendio (27,5%), su più tempo libero da dedicare a sé stesse o alla famiglia (20%). Colpisce il fatto che questo sia l’ordine di preferenza: svolgere meglio il proprio lavoro e guadagnare di più, per essere libere di gestire al meglio anche i tempi e i servizi per la famiglia. E’ una svolta decisa verso una gestione più matura del proprio percorso individuale, al di là del ruolo interpretato da un eventuale compagno e dall’impegno familiare che si intende assumere. Alla domanda “Quale elemento potrebbe favorire la tua vita professionale?” le colleghe hanno messo al primo posto la fiducia dei capi (25%), seguita da un rafforzamento della propria autostima (8%), ma appare centrale anche il tema dell’organizzazione del lavoro, il miglioramento dei servizi per chi ha famiglia, e soprattutto un cambiamento delle condizioni di mercato che consenta maggiore stabilità evitando lo sfruttamento intensivo soprattutto delle donne (complessivamente il 31,50% delle risposte fa riferimento a questo ventaglio di soluzioni). Le intervistate, insomma, manifestano una volontà piuttosto esplicita di avere un ruolo attivo e centrale nel mondo dell’informazione, anche a fronte di una severa incertezza sul futuro: dicono “io ci credo ancora, nonostante tutto, e vorrei avere più opportunità per dimostrare quanto valgo”. E se sono moglie o mamma, ho più cose da offrire al mio mondo professionale, e se voi siete padri o mariti, fate la vostra parte per costruire un sistema capace di contenere anziché escludere, approfondire anziché sottovalutare. Saremo tutti giornalisti più capaci di recepire e ritrasmettere la realtà, nella sua infinita complessità contemporanea.
Chiara Paolin Simona Spagnoli
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LA PAROLA ALLE COLLEGHE. RIFLESSIONI IN LIBERTA’
FAMIGLIA
“Non credo che rientrerò tanto facilmente in una redazione e sinceramente il mio problema principale è continuare a fare la giornalista e non gettare la spugna. Il lavoro migliore che ho avuto è stato in una redazione mista in cui uomini e donne si bilanciavano: comunque credo che a livello professionale bisogna prima di tutto ragionare da giornalisti e poi da uomini e donne. Non penso che un’eccessiva femminilizzazione della professione sia un bene, il confronto e la diversità aiutano a far emergere le idee migliori. Sono convinta che ci siano più uomini nei ruoli dirigenziali perché hanno più tempo e disponibilità, possono permettersi di lasciare la cura dei figli e della famiglia in secondo piano. Ho sentito molti colleghi litigare spesso per telefono con mogli e compagne e infatti la categoria mi sembra abbastanza afflitta da separazioni e divorzi. Non ho figli e non penso di essere la persona più indicata a dare dei consigli, certo se avessi una famiglia non potrei fare più il lavoro da inviata. O una è fortunata e trova un marito di larghe vedute che sta lui a casa con i figli, o ha dei genitori e suoceri super o, come dice sempre mio padre, il lavoro migliore per una donna è l’insegnamento. Che una donna sia capace di comandare e di avere ruoli di responsabilità non ho dubbi, che lo sappia fare bene dipende dal suo carattere più che dal sesso e anche di quello che ha dovuto fare per strada per arrivare a quel livello (motivo per cui non farò mai carriera, ma questa è un’altra storia)”.
COMANDO
“Interessante la parte relativa ai ruoli di responsabilità/comando da parte delle donne. Un argomento finora ignorato. Il che rende obsoleta la trita e femminista questione delle sole Pari Opportunità. Le giovani donne ce le hanno, ora hanno voglia di mettersi in gioco con incarichi superiori. E vogliono strumenti per ottenerli, diritti per accedervi”.
LOTTA
“In questo ambiente c’è una mentalità maschilista troppo radicata per pensare di poterla debellare. A me piacerebbe essere vista come giornalista, più che come una giornalista; mi piacerebbe che i colleghi non si stupissero quando faccio bene il mio lavoro, ma lo considerassero normale. E forse tra le materie da studiare per l’esame di stato dovrebbero inserire la “storia dell’emancipazione femminile: lotte e conquiste”.
RAPPRESENTANZA
“Nel giornalismo televisivo (da dove provengo) in sede di assunzione si predilige una donna. Questo perché inizialmente l’aspetto esteriore ha il suo peso. Quando però la donna inizia a lavorare, le si chiede di comportarsi come un uomo. Dando cioè sempre il massimo della disponibilità e facendole capire che se deciderà di avere figli o una vita sentimentale non di ripiego allora tutti i discorsi di professionalità, avanzamento di carriera o parità, non saranno ammessi. Il periodo della maternità (sia la facoltativa che quella obbligatoria) è vissuta sempre e comunque come un peso che l’azienda e i colleghi devono sopportare. Si chiede addirittura di programmare la gravidanza, di non fare figli troppo ravvicinati, per non parlare delle assenze nei primi anni di vita del bambino. Insomma, è piuttosto dura. E ancora. Alle donne che non fanno figli, i capi chiedono sempre di più. Se ne approfittano alla grande. Come se non avere figli equivalesse a pensare sempre e solo al lavoro. E comunque a parità di ruoli gli stipendi delle donne sono sempre minori. Sarebbe interessante conoscere l’incidenza degli abbandoni delle donne dopo il primo figlio. Magari si potrebbe costituire un’associazione di donne giornaliste, anche solo a livello regionale. E visto che il giornalismo è sempre più femminile sarebbe bello anche poter avere qualche rappresentante ai vertici dei vari organi. E’ vero che le donne puntano meno ad arrivare ma se ce ne fosse qualcuna valida e politicamente impegnata credo che potremmo tutte contare di più ed ottenere ciò che più ci riguarda”.
SFRUTTAMENTO
“Un problema che ho vissuto sulla mia pelle e che coinvolge sia uomini che donne dipende forse dal momento di crisi attuale. Mi sono vista chiudere in faccia delle porte, perché a parere di chi decideva io ero troppo costosa rispetto ad altri che entravano al momento nel mondo del giornalismo. Purtroppo c’è lo sfruttamento, che alcuni chiamano gavetta”.
RIVALITA’
“Mi sembra che le donne non sappiano lavorare con le donne, mi sembra che siamo noi le prime a avviare azioni controproducenti sul lungo periodo.Mi sono sempre trovata bene in ambienti maschili senza mai subire prevaricazioni o ricatti sessuali (quelli professionali di ricatti si, ma fan parte del mestiere ed è un’altra storia). Dalle donne ho spesso ricevuto diffidenza. Forse perché non assumevo uno dei più classici atteggiamento femminile di cui parlavo sopra (azioni controproducenti appunto) cioè tutti quegli atteggiamenti lamentosi e sterili che non aiutano ad affrontare i problemi al di là del genere sessuale a cui si appartiene. Le donne non si alleano si ostacolano. Mi rendo conto che sembra che io non abbia una grande opinione del genere femminile a cui invece sono davvero contenta di appartenere. Mi dispiace dirlo, ma credo che dovremmo fare tutte noi un salto di qualità, intellettuale e professionale”.
CARATTERE
“Ho sempre lavorato con uomini quindi mi sono dovuta adattare all'universo maschile, ciò alla lunga ha influito su carattere, comportamenti e persino esteriorità. Non è un fatto positivo perché ho rinunciato a qualcosa della mia personalità per sopravvivenza”.
SOPPORTAZIONE
“Quando dico che, di sera, vado a seguire consigli comunali o fisso appuntamenti per interviste, chi mi ascolta immancabilmente fa la riflessione seguente: ma tuo marito come fa a sopportarlo? E io rispondo: guarda che vado a seguire un consiglio, mica vado al night”.
Chiara Paolin Simona Spagnoli
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